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mercoledì 19 agosto 2009

7.1 La cottura dei cibi



[...] È interessante notare come il Trecentonovelle metta in risalto l’uso di alcuni prodotti ortivi all’interno delle minestre. Cavoli, legumi, agli e cipolle rappresentavano una risorsa indispensabile per le popolazioni meno fortunate: essendo quotidianamente presenti alla mensa di contadini e lavoratori manuali erano considerati alimenti meno apprezzabili della carne. Nella novella XCI apprendiamo che Minonna Brunelleschi con i cavoli del suo orto spesso era avvezzo a mangiare “gran minestre”. Il cavolo oltre ad essere consumato da solo (nella novella CXLV accompagna una porzione di tonno) veniva utilizzato anche per preparare delle salse e delle minestre ricostituenti. Nella raccolta del Sacchetti non emergono elementi a sufficienza per approfondire quali fossero gli ingredienti utilizzati per cucinare tali minestre, ma è facile dedurre che si trattasse di cibi facilmente reperibili dai contadini: oltre al cavolo, le cotenne di maiale, il lardo e il formaggio stagionato. Come al solito non mancavano mai il sale, il pepe e l’aglio. L’importanza delle verdure per la gente comune non fu solo un elemento che caratterizzò l’alimentazione del basso Medioevo ma si protrarrà anche successivamente: basti pensare che i racconti tedeschi del XVI secolo riferivano che i contadini mangiavano crauti anche tre e quattro volte al giorno!
La novella CLXVIII, invece, ruota attorno all’attività di un agricoltore pratese che, mentre batte le fave sotto il solleone estivo, è vittima di un inconsueto incidente. Il legume testé citato, molto diffuso in Italia , era un ingrediente basilare per preparare polente e farinate (la farina di fave veniva macinata con quella di frumento) .
Questo episodio ci suggerisce che il suddetto legume, oltre ad essere consumato insieme al pane e ad un po’ di sale, veniva impiegato per fare delle pappe e delle polente. Un tipico piatto medievale era proprio la purea di fave: dopo esser state messe a bagno per un giorno, le fave venivano portate lentamente ad ebollizione in acqua fredda e cucinate finché si sbriciolavano sotto le dita. Il composto si salava a fine cottura e si passava al setaccio. Poi venivano fatte rosolare a fuoco lento le cipolle tagliate a rondelle e non appena si erano un po’ appassite, si aggiungevano le mele a fettine, la salvia e si passavano a fuoco lento [...]

[...] Un altro alimento particolarmente apprezzato nelle novelle è il pesce, soprattutto l’anguilla e la lampreda. Nella già nota novella CCIX emergono particolari che ci forniscono una testimonianza efficace non solo sulla squisitezza della vivanda ma anche sulla sua pericolosità morale.
Il Sacchetti ci introduce fin dal principio nell’atmosfera gastronomica della vicenda: dopo aver stabilito la relazione tra la cattura dell’anguilla e quella del “gentiluomo” (asse portante della novella), l’autore, per dare rilievo alla ghiottoneria del protagonista, lo introduce chiamandolo “Minestra” e lo descrive come “uomo grasso e con corto vedere, […] molto goloso”. Quando la serva comunica a Minestra di aver visto un’anguilla nel ruscello, egli dapprima è incredulo ma poi è talmente attratto dalla possibilità di mangiare quel pesce che, a suo rischio e pericolo, decide di catturarlo. La prelibatezza di questo cibo spinge l’autore a proporre una lunga riflessione sui metodi utilizzati dal demonio per catturare le anime servendosi della gola, ed usando in particolare anguille e lamprede: non è un caso che questi due pesci, come detto, i più desiderati , siano qui citati in coppia. Non sembra occasionale neppure il fatto che sia l’anguilla ad offrire l’occasione per riflettere sul demonio; l’anguilla viene identificata come simbolo del peccato e come arma di grande seduzione per trarre a sé tutti i golosi:

“E notino li padri e le madri, che allevano i loro figliuoli, acciò che non li crescano in questo vizio; ché questo è quel vizio che per lo primo peccato ci ha condotto a morte, e fa altrui incorrere in molti terribili peccati e disfazione di famiglie; però che dalla gola viene lussuria, prodigalità, giuoco e molti mali; e in fine quando manca l'avere, che non abbia di che supplire all'appetito, a tutti e' mali si reca per avere danari. Se io volessi descrivere quanti e quali, non so se capessono in questo libro. E come il demonio aesca nella gola, cosí nella lussuria e nella concupiscenza carnale, cosí nell'avarizia con la moneta e con le ricchezze e stati e beni terreni; e quando li giugne alla fonte, come Mazzone giunse il Minestra, gli piglia e dagli a' berrovieri, cioè a' diavoli, che gli menino alla Bolognana, nel centro dell'abisso; e allora è pagato colui che dee avere, e al debitore è dato quello che merita.”

Questo pesce era, inoltre, molto legato alla satira anticlericale, che associava “le grasse anguille alle facce rubiconde dei monaci e dei canonici” [...]


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