Rispetto al maiale, gli ovini non venivano allevati principalmente per la carne. La maggior parte di essi venivano uccisi nel terzo o quarto anno di vita a conferma del fatto che fossero più utili come animali vivi. Esaminando poi i dati del polittico di Santa Giulia di Brescia si nota che l’allevamento delle pecore, tra il IX e il X secolo, non era uniformemente e capillarmente diffuso come quello dei maiali; tuttavia, nei secoli a venire l’Europa scoprì che, fra tutti gli animali domestici, la pecora era quello più produttivo. Essa forniva il latte, la carne e la lana che serviva a confezionare gli indumenti, in un periodo storico in cui ciascuno cercava di provvedere direttamente ai suoi bisogni primari. Non erano da trascurare, inoltre, le pelli che potevano essere vendute ai produttori di pergamena, i quali si trovarono d’improvviso al centro di un commercio molto attivo di materiali per manoscritti, e il sego che serviva per fabbricare le candele.
In merito all’allevamento degli ovini non ci sono elementi indicativi all’interno delle novelle, il Sacchetti si sofferma sulla carne già macellata e sul relativo impiego gastronomico. Nella già citata novella CLX troviamo in vendita sui deschi del mercato fiorentino una considerevole quantità di castroni:
“Il quale uno dì di sabato santo, quando la beccheria era più fornita di carne, e' cittadini in moltitudine a comperarne, essendo venuto a un desco molto ben fornito di castroni,[...]”
Considerando il frenetico commercio di questo tipo di carne, soprattutto nel periodo antecedente alla Pasqua, è doveroso dire che su questo alimento venivano fatti dei veri e propri investimenti: meno irritabile della mucca, e più agile in pascoli scoscesi, la pecora bruca l’erba più a fondo ed è, fra l’altro, più feconda; questi aspetti non sfuggirono agli investitori su piccola scala che valutarono la possibilità dell’allevamento di pecore e le trovarono vantaggiose. Furono molti i cittadini, ma anche i contadini, che adoperarono i loro guadagni o i loro risparmi per acquistare importanti quantità di animali: alcune volte l’allevatore riceveva un gregge che doveva restituire al suo finanziatore in due o tre anni, tenendo per sé la metà degli agnelli nati nel frattempo, altre il padrone indebitato cedeva la proprietà con contratti di vario tipo, pascolo, soccida, allevamento ecc. Il pastore, o l’antico proprietario, assicurava il mantenimento delle bestie e divideva con l’altra parte le spese e i profitti, che non dovevano essere affatto scarsi se nel Trecento a Firenze si consumavano circa 60 mila ovini tra montoni e pecore [...]
In merito all’allevamento degli ovini non ci sono elementi indicativi all’interno delle novelle, il Sacchetti si sofferma sulla carne già macellata e sul relativo impiego gastronomico. Nella già citata novella CLX troviamo in vendita sui deschi del mercato fiorentino una considerevole quantità di castroni:
“Il quale uno dì di sabato santo, quando la beccheria era più fornita di carne, e' cittadini in moltitudine a comperarne, essendo venuto a un desco molto ben fornito di castroni,[...]”
Considerando il frenetico commercio di questo tipo di carne, soprattutto nel periodo antecedente alla Pasqua, è doveroso dire che su questo alimento venivano fatti dei veri e propri investimenti: meno irritabile della mucca, e più agile in pascoli scoscesi, la pecora bruca l’erba più a fondo ed è, fra l’altro, più feconda; questi aspetti non sfuggirono agli investitori su piccola scala che valutarono la possibilità dell’allevamento di pecore e le trovarono vantaggiose. Furono molti i cittadini, ma anche i contadini, che adoperarono i loro guadagni o i loro risparmi per acquistare importanti quantità di animali: alcune volte l’allevatore riceveva un gregge che doveva restituire al suo finanziatore in due o tre anni, tenendo per sé la metà degli agnelli nati nel frattempo, altre il padrone indebitato cedeva la proprietà con contratti di vario tipo, pascolo, soccida, allevamento ecc. Il pastore, o l’antico proprietario, assicurava il mantenimento delle bestie e divideva con l’altra parte le spese e i profitti, che non dovevano essere affatto scarsi se nel Trecento a Firenze si consumavano circa 60 mila ovini tra montoni e pecore [...]
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