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domenica 11 aprile 2010

L'alimentazione dall'antica Roma al Seicento



Segnalo ai miei lettori un articolo, trovato su Blog.it, su come è cambiato il modo di mangiare nei secoli. Il blog contiene anche ricette e articoli molto interessanti (leggete anche "I banchetti della Roma Imperiale in attesa del 2763 Natale di Roma") per chi fosse appassionato all'argomento.

Ecco uno stralcio dell'articolo:

[...] Non si può che partire dall’antica Roma dove, a onor del vero, i gusti e le usanze erano assai diverse da quelle che la Roma moderna offre. Più o meno tutti conoscono il disgustoso uso di infilarsi due dita in gola a fine pasto per svuotare lo stomaco e ricominciare da capo il banchetto, sempre mollemente adagiati sui propri triclini. Se invece si decideva di raggiungere la fine del pasto, si concludeva con lattuga fresca per ‘sgrassare’. Ma non è tutto: i nostri progenitori amavano mescere il vino con l’acqua di mare e preparavano una prelibatezza di formaggio mescolando il latte con un rametto di fico perché questo conteneva una sostanza che lo faceva cagliare. Inoltre consideravano le fave bollite una leccornia, baciavano a bocca chiusa se avevano mangiato il porro e cuocevano i cavoli in acqua nitrata o aceto stagionato per combattere la nausea.

A darci numerose indicazioni sull’alimentazione del suo tempo, sia quella sulle tavole dei nobili che su quelle dei poveri, è il poeta Orazio che, come noi oggi, amava i cibi semplici ed economici quali malve, cicoria, olive, sosteneva che niente fosse meglio di pane e sale per togliere la fame e odiava a tal punto l’aglio da credere che l’avesse inventato una strega di nome Canidia. Orazio racconta che i ricchi mangiavano cibi inusuali come ostriche e pavone e che sulle loro tavole si azzardavano abbinamenti che definiremmo inquietanti, come i tordi con i frutti di mare. I cuochi al loro servizio si affannavano a inventare ricette sempre più stravaganti con cibi ricercati e a volte impensabili. Molti venivano dalle parti più remote dell’impero, come la salsa di pesce dalla penisola iberica o il frumento dalla Libia e i prodotti agricoli dall’Africa; una particolare delizia era considerata la frutta siciliana (non è davvero cambiato niente), il miele della Calabria e le mele del territorio piceno. Ma il poeta non racconta soltanto i banchetti dei nobili, dove dopo ogni portata arrivavano svelti due schiavi: uno puliva la tavola con un panno porpora, l’altro eliminava ogni traccia di cibo mentre gli opulenti commensali si sciacquavano le mani in acqua e vino. Elargiva consigli alle persone comuni: preferire le uova allungate a quelle tonde, scegliere i funghi prataioli, terminare i pasti con le more nere, aprirli con bevande leggere (il nostro aperitivo).
Nel Medioevo aumenta il consumo dei cereali e diminuisce quello della carne a vantaggio dei proteici legumi. Il colore del pane, d’ora in poi, indicherà la classe sociale, oltre che l’area geografica di provenienza di ogni individuo e verrà coniato il termine ‘companatico’ a indicare tutto ciò di commestibile che accompagnava il pane, ovviamente centro dell’alimentazione soprattutto di poveri e contadini. Quanto ai ricchi, per loro la vita è sempre stata facile, con tavole imbandite in cui non mancava nulla: brodo, carni in umido dalle preparazioni elaborate come il biancomangiare, frutta e spezie, che più erano abbondanti più erano simbolo di magnificenza. In quest’ottimo sito abbiamo trovato una chicca: a Roma nei secoli bui si mangiavano gli zanzarelli, una sorta di zuppa antenata della nostra stracciatella, in cui l’uovo era utilizzato per l’aspetto esteriore e c’era abbondanza di zafferano, cannella, pepe, zenzero e noce moscata. Molto in voga anche la minestra d’erbe fresche con la lattuga chiamata, appunto, romana, il capretto arrosto, il pollo, la porchetta, che veniva chiamata ‘maiale rovesciato’ perché nella sua preparazione tutto quello che era dentro veniva fuori e viceversa; poi le salse a base di prugne o d’aglio, il cui sapore veniva smorzato con mandorle o succo d’uva e torte cotte nelle braci del camino. I banchetti, poi, erano un vero e proprio spettacolo: c’era l’antipasto di frutta di stagione accompagnata da vini muffati, il ‘primo servizio’ con brodetti vari, il ‘secondo servizio’ con le carni in umido, poi gli arrosti e gli intermezzi, i nostri contorni. Solo a questo punto ci si poteva alzare e ballare sulla musica che veniva suonata dall’inizio alla fine dei pasti. Il vino era solo bianco, perché il rosso, robusto, era considerato adatto a chi lavorava nei campi. Si finiva in bellezza con dolcetti vari e come digestivi semini di anice o cardamomo.
A cavallo tra Medioevo e Rinascimento divenne famoso il Maestro Martino, che perfezionò la sua arte culinaria proprio a Roma, nelle cucine del Vaticano. In questo periodo si consumavano minestre a base di latte e riso e carne di selvaggina che venivano preparate in crosta di pane, ma proprio lui dette inizio a una grande tradizione romana: quella della pasta asciutta, cucinando per primo maccheroni e vermicelli conditi con uvetta, burro e sale.
Nei secoli del Rinascimento la cucina cambiò molto, grazie alle patate, al mais, al tacchino e al cacao che furono portati dalle Americhe, o al caffè e al tè dall’Oriente. Tutti prodotti che però ci misero molto per affermarsi: la patata ad esempio fu usata nell’alimentazione umana solo a partire dal Settecento e lo stesso il mais, usato per disperazione come unica alternativa alla morte in tempi di carestia, sottoforma di polenta. E sempre dopo il Seicento la bevanda del cacao, la cioccolata calda, fu scoperta da re e regine [...] continua qui


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